La mattina dell’ultima giornata ci svegliamo con due sole certezze: dobbiamo percorrere poca strada e non dobbiamo preoccuparci di ottimizzare lo spazio nelle borse come al solito. Una volta arrivati infatti le svuoteremo un ultima volta per poi trasferire tutto il contenuto in borsoni più capienti.
Queste due considerazioni portano a una colazione lunghissima e alla peggiore organizzazione dei bagagli fino a quel momento: infiliamo più o meno a caso nelle borse tutto ciò che ci capita sottomano, il resto viene ridotto a una palla da legare al portapacchi con un numero imprecisato di elastici. Nel momento in cui dobbiamo partire la bici di Sio, già mediamente più carica delle nostre per via della tenda che sporge dal retro, è letteralmente una discarica: sopra a tenda e borse sono appese bottiglie di plastica vuote, vestiti e (per un motivo che tuttora ci sfugge) un sasso.
Partiamo tranquilli e rilassati, pensando che con un tempo del genere percorrere un cinquantina di chilometri sarà una questione da poco.
Ovviamente dimentichiamo che la nostra vita è un meme vecchio e stantio e quindi VENTO FORTISSIMO IN FACCIA TUTTO IL TEMPO
Ma è l’ultimo giorno, cerchiamo di non farci caso e pedaliamo con la dovuta calma, distanziati l’uno dall’altro di qualche centinaio di metri. Siamo tutti e tre stranamente silenziosi, iniziamo a realizzare che la strada che ci scorre pigra sotto le ruote è l’ultima che vedremo dall’alto dei nostri sellini.
Si respira un’atmosfera strana, un misto di aspettativa e dispiacere che non riusciamo bene ad afferrare. A riportarci alla realtà è la strada Uno, a cui ci ricolleghiamo a una quindicina di chilometri da Reykjavik. Siamo in prossimità della capitale e il traffico, fino a quel momento quasi completamente assente, si fa sostenuto; entrando in città stiamo attenti a non venire investiti mentre superiamo le varie entrate, unici ciclisti in un flusso costante di auto, per una volta su di una strada con più di una corsia per senso di marcia.
Stiamo entrando in un città con poco più di centomila abitanti ma per quanto ci riguarda potremmo stare entrando in una metropoli, non siamo più abituati a dover fare attenzione al traffico e alla segnaletica. Riusciamo a non farci falciare e decidiamo di dirigerci come prima cosa al negozio/officina di Jon per un saluto.
Per sua fortuna e nostra sfortuna troviamo il negozio chiuso, decidiamo quindi di farci una foto davanti alla porta di ingresso e la inviamo a Jon. Siamo certi che sarà al settimo cielo quando apprenderà che i tre italiani rumorosi non solo sono sopravvissuti, ma sono anche riusciti a tornare per infastidirlo nuovamente.
Ci riteniamo soddisfatti e risaliamo in bici per gli ultimi due chilometri che ci porteranno da Nanna.
Ci arriviamo quasi senza accorgercene.
I continui saliscendi di Reykjavik, che alla partenza mi sembravano salite di tutto rispetto, adesso sono solo miseri dossi che scorrono sotto le nostre ruote senza neanche farci cambiare ritmo di pedalata.
Non sto facendo lo smargiasso, ormai siamo dei ciclisti potentissimi.
Inoltre: qualcuno usa ancora il termine “smargiasso” nel 2017?
Quando arriviamo sotto casa di Nanna le mandiamo un messaggio e smontiamo dalla sella. Mentre aspettiamo che ci apra portiamo le bici a mano fino al piccolo giardinetto sul retro come in una specie di trance. Le appoggiamo al muro e ci rendiamo conto di essere arrivati. Ci troviamo esattamente nel punto da cui eravamo partiti.
Ci stiamo lasciando alle spalle poco meno di 1800 chilometri e un mese passato in sella alle nostre Hobootleg Geo. Abbiamo chiuso il cerchio, abbiamo circumnavigato l’Islanda.
Davanti a noi compare il sindaco di Reykjavik, si congratula con noi e ci comunica che siamo i più migliori turisti che l’Islanda abbia mai avuto. Ci consegna le Chiavi della Città e due chili di prosciutto di merda a uso ridere.
Lo ringraziamo, umili come solo i grandi sanno essere, e prendiamo in consegna le Chiavi mentre la banda cittadina ci saluta sulle note di “Burn in Hell”, nella versione dei Dimmu Borgir.
Ma niente di tutto questo conta, l’unica cosa che ci interessa vedere è la porta di ingresso aprirsi e la figura di Nanna comparire sulla soglia. La ritroviamo sepolta sotto numerosi strati di sciarpe e maglioni, tragicamente sfigurata dall’influenza. Scrivo “tragicamente sfigurata” solo perché so che non può leggere l’italiano e quindi gambizzarmi di conseguenza.
Ci saluta con una voce incredibilmente baritonale e rantola parole incomprensibili mentre l’abbracciamo con lo sprezzo dello spazio personale che ci contraddistingue. Tiriamo giù dalle bici borse e carichi e saliamo per le scale trascinandoceli dietro; quando entriamo ci sembra di essere tornati a casa. Depositiamo tutto in un angolo creando un maestoso cumulo di spazzatura e ci lasciamo cadere increduli sul divano.
Facciamo inoltre la conoscenza di Owen, il ragazzo di Nanna, che durante la nostra ultima visita si trovava in Inghilterra per una serie di incontri diplomatici. Owen è infatti inglese, e pare che tra le responsabilità albioniche vi sia quella di tornare ciclicamente sul suolo natio per prendersi delle sonore sbronze in compagnia dei propri amici. Da abitante delle Venezie capisco l’usanza come se fosse mia e verso una lacrima di fraterna comprensione mentre appoggio una mano sulla sua spalla.
Owen probabilmente si sta chiedendo quali problemi abbiamo ma non lo dà a vedere.
Ci accoglie con lo stesso calore di Nanna, o probabilmente di più visto che nel frattempo Nanna sta agonizzando sotto il suo strato di maglioni. Decidiamo di sistemarci senza dare troppo fastidio e lasciamo i padroni di casa alla loro intimità domestica mentre approntiamo quello che ci piace chiamare “l’angolo dei profughi”: un punto della casa in cui accatastiamo i nostri possedimenti con gusto da veri arredatori di interni e sopra il quale sistemiamo materassini e sacchi a pelo, veri Re della nostra discarica.
Come se non bastasse, con mia somma gioia, mi viene permesso di mettermi a dormire nell’ingresso, lontano un intero corridoio da Nick.
Quella notte dormo sereno come un orrendo bambino grasso.
Abbiamo due intere giornate da trascorrere in città prima di prendere un aereo che ci porterà verso l’ultima meta del viaggio; approfittiamo della bella giornata per separarci e godere un po’ della meritata intimità dopo un mese di convivenza forzata.
OVVIAMENTE GODUTISSIMA EH, L’AMICIZIA È PIÙ FORTE DI QUALSIASI COSA!!1!
Trascorriamo la mattinata a lavorare. Quando arriva il pomeriggio riprendiamo le bici, di colpo leggerissime senza le borse, e ci avviamo verso Jon: è arrivato il momento di smontare il nostro mezzo di trasporto per poterlo impacchettare in previsione della spedizione.
Questa volta troviamo la porta aperta, mettiamo la testa dentro e ci annunciamo berciando come delle anatre, Jon si affaccia con la solita aria serafica e ci invita a entrare. Iniziamo a chiacchierare e a raccontargli del viaggio mentre ci guarda pacifico annuendo in segno di approvazione.
Ogni volta che accenniamo un ringraziamento per lo spazio e il tempo (ci terrà le bici già inscatolate per i dieci giorni che trascorreremo in Groenlandia) ci risponde con il suo tradizionale “no problem”. Smontiamo le Geo e le riponiamo nelle loro scatole con cura, grati per quelle bici che hanno portato i nostri culoni per 1777 chilometri, senza mai dare un solo problema.
Rimaniamo sino all’orario di chiusura, ci accomiatiamo da Jon con la promessa di vederci con più calma il giorno successivo.
La sera stessa a Reykjavik si tiene la Culture Night, una manifestazione che coinvolge tutto il centro cittadino con una moltitudine di eventi e performance all’aperto.
Nanna e il suo gruppo teatrale, gli Huldufugl (letteralmente: “l’uccello misterioso”) stanno preparando da tempo un’esperienza di realtà virtuale di cui Nanna dovrebbe essere la voce narrante. Il compito perfetto per quando l’influenza ti priva di qualsiasi forza in cambio di una terribile voce roca.
Un enorme scatola completamente rivestita in modo da non lasciare penetrare al suo interno alcuna luce ospita in una metà l’attrezzatura che gli Huldufugl utilizzano per gestire e controllare la simulazione, mentre l’altra metà è isolata e attrezzata con un HTC Vive, tramite il quale chi partecipa alla simulazione deve cercare di sfuggire da una scatola, questa volta virtuale. Il tutto mentre un personaggio controllato dall’esterno della scatola da un membro della compagnia impartisce al “giocatore” informazioni e dritte per muoversi nell’ambiente simulato.
Fortunatamente un altro membro del gruppo può dare il cambio a Nanna, i due si alternano mentre noi gironzoliamo nei dintorni e Nick scatta foto per il portfolio della compagnia teatrale.
Foto che sto utilizzando per tutto il post visto che un certo fotografo ha deciso di non scattare altre foto di Reykjavik durante questa seconda visita…
Trascorriamo il tempo chiacchierando con gli amici di Nanna e Owen, fino a quando i fuochi d’artificio segnalano la fine della manifestazione. Torniamo con calma verso casa mentre pensiamo a quello che ancora ci aspetta; dobbiamo ancora realizzare di aver finito di pedalare, non possiamo immaginare che alcuni dei momenti più incredibili del viaggio ci aspettano nella manciata di giorni che trascorreremo in Groenlandia…