Dopo una notte serena, passata su Internet cercando informazioni sulle morti causate dagli orsi polari, mi alzo con la gioia e la positività che mi contraddistinguono e mi avvio verso la stazione per incontrare Sio, sicuro che nel giro di pochi giorni finiremo sbranati e/o assiderati.
Arrivo in stazione con una buona mezz’ora di anticipo, il tempo di fare colazione e Sio arriva, bardato come solo chi è padrone di una estrema capacità organizzativa sa fare; oltre a un grosso borsone porta due borse da bici legate insieme con del nastro adesivo, un sacchetto di carta pieno di cose buttate a caso e un ukulele con custodia.
Penso con intensità allo sforzo che dovrò fare nei prossimi due mesi per non percuoterlo fortissimo con un bastone.
Saliamo sulla navetta che ci porterà a Linate, dove raccoglieremo le ultime due parti fondamentali per il viaggio: le Bici e Nick.
Le bici arrivano puntuali a bordo del furgone di Cinelli, inscatolate e pronte per essere spedite.
Nick purtroppo viene fornito sprovvisto di scatola in cui riporlo, quindi dobbiamo interagire con lui. Lo facciamo abbracciandoci tantissimo e urlando molto, per la felicità di tutti gli astanti.
Procede tutto in scioltezza. I nostri documenti sono validi, imbarchiamo le borse senza problemi, riceviamo le carte di imbarco e ci dirigiamo Sicuri & Tracotanti al desk per i bagagli ingombranti.
Le scatole delle bici non sono delle dimensioni corrette.
Nessun problema!
Scartiamo il tutto, facciamo passare sul nastro, e rimpacchettiamo. Tutto questo sorridendo tantissimo ed venendo circondati da uccellini e animaletti del bosco attirati dalla nostra gioia.
Ci dirigiamo al gate.
Prenderemo tre aerei: il primo volo, da Milano a Stoccolma, di circa tre ore. Il secondo, da Stoccolma a Oslo, brevissimo, un ora soltanto. E per finire altre tre ore per andare da Oslo a Longyearbyen, la nostra Tappa Iniziale™.
Il tutto inframezzato da brevi soste che ci permetteranno di disquisire della condizione economica internazionale (ingozzarci di hamburger) e di sociopolitica (bere tantissime birre).
Facciamo tutto questo come da programma.
I voli sono fortunatamente piacevoli, pochissime turbolenze e zero ritardi.
Arriviamo a Longyearbyen a mezzanotte e trenta.
Fuori il sole splende.*
Ritiriamo i bagagli e le bici, mentre vengo etichettato come Idiota dagli altri viaggiatori, in quanto in un paese con temperature artiche scendo dall’aereo in bermuda e maglietta a maniche corte.
Dal borsone estraggo i vestiti adatti e mi cambio, guardando con sufficienza gli scettici della frase precedente che riconoscono la mia natura di viaggiatore esperto.
Mi accorgerò solo più tardi di essere rimasto un ora con la patta aperta.
Comunque siamo arrivati, abbiamo il nostro equipaggiamento e niente può ormai andare storto.
Il personale del piccolo aeroporto ci informa che non può tenere gli scatoloni contenenti le bici fino alla mattina, quando aprirà il campeggio, e il tempo piovoso ci impedisce di lasciarli all’aperto per il rischio che si trasformino in palle di carta fradicia.
Passiamo la nostra nottata (letteralmente illuminata a giorno) accasciati accanto alle scatole delle bici, nell’ingresso dell’aeroporto, cercando di tenerci svegli a vicenda per non farci trovare addormentati dalla ipotetica ronda notturna che, come avvisano i cartelli, ha dovere di requisire i pacchi lasciati incustoditi.
Arrivano finalmente le otto di mattina.
Riusciamo a trascinarci fino al campeggio, che fortunatamente dista solo cinquecento metri dall’aeroporto (in discesa, su un sentiero pietroso che attraversa acquitrini, zolle fangose e nidi di uccelli locali che cercano di avvisarci urlando, lanciandosi sulle nostre teste e dipingendoci di guano). Ci attendono ottime notizie: la gentilissima proprietaria ci conferma che potrà tenere i nostri ingombranti pacchi all’asciutto, nel suo magazzino invernale, per tutta la settimana seguente.
Sono ormai le nove e trenta, montiamo la tenda e depositiamo le nostre carcasse nei sacchi a pelo, senza che il sole possa disturbare il nostro Sonno dei Giusti.
Quando ci svegliamo è ormai pomeriggio, decidiamo che un piano d’azione responsabile potrebbe essere quello di recarci nel centro abitato (cinque chilometri di distanza, percorribili a piedi senza paura di orsi polari in quanto costeggiati dalla recinzione che parte dall’areoporto) per recuperare dei viveri e informarci sulle escursioni che riempiranno le giornate successive.
*dire che il sole splendesse è ovviamente una drammatizzazione volta a creare l’effetto comico. La realtà è che il tempo è grigio con un cielo plumbeo che promette pioggia (leggi: il tempo standard delle isole Svalbard), ma la luce è quella che ci si aspetterebbe il primo pomeriggio.
Longyearbyen è una piccola cittadina, circa duemila abitanti, nata intorno all’attività di estrazione e trasporto del carbone.
Nonostante le dimensioni contenute, e il fatto ragguardevole di essere l’insediamento civile più a nord del pianeta, si presenta come un normale centro abitato, con le sue attività commerciali e una discreta attività di locali e divertissement.
Nick mi fa promettere solennemente di non scrivere mai più “divertissement”.
Oltre a un fornitissimo supermercato in cui è possibile acquistare generi alimentari di ogni tipo, locali e non, la città ha diversi pub e ristoranti, un cinema, un museo e un’università di cui si parlerà più avanti.
Facciamo spesa degli alimenti base per garantirci una dieta corretta nel rigido clima artico.
Maionese, latte al cioccolato (ovviamente non per Sio), tantissimo salame, uova, bacon, burro di arachidi, un chilo di frutta secca (non salata, con mio estremo dispiacere) e banane.
Nel cielo si ode l’urlo di mia madre resasi conto della mia incapacità, alla soglia dei trent’anni, di nutrirmi in maniera sensata.
Dividiamo la nostra spesa negli zaini e ci aggiriamo tra i locali cercando di decidere cosa riempirà le nostre capienti pance; la prima sera mangiare fuori è d’obbligo e i festeggiamenti sono dovuti.
Scegliamo un ristorante affollato, che pare fare della carne la propria specialità.
Mangiamo degli ottimi “Moose Burger” (opinabile che si trattasse o meno di vero alce) accompagnati da patate dolci fritte e una salsa a base di panna acida e frutti di bosco, mandando giù il tutto con delle eccezionali ale norvegesi.
Per digerire decidiamo di cambiare posto e ci trasferiamo nel locale accanto per consumare il nostro dolce preferito: un’altra birra.
Il locale si chiama (giuro sulle mie scarpe) Svalbar, il che suscita l’istantanea ilarità di Sio che andrà avanti ad ammorbarci con orrendi giochi di parole per le successive due ore.
Nick condivide; entrando si precipita al bancone dove chiede al barista impassibile tre “Svalbeer”.
La mancanza di reazione di quest’ultimo insinua il dubbio che la battuta di livello non sia passata, quindi Nick provvede a sottolineare che si trattava, appunto, di una battuta.
Il barista lo informa del fatto che la freddura è stata colta e comunque non apprezzata. Il tutto senza cambiare espressione.
Nonostante la mancata gag e il gelo seguente, il pub è estremamente vivace.
I ragazzi e le ragazze che lo popolano fanno probabilmente parte di quel turismo interno che durante i due mesi estivi (luglio e agosto) riempie Longyearbyen e tutte le Svalbard di nuova vita.
I restanti nove mesi, infatti, sono rigidi sia nelle temperature che nelle scelte che le giornate, progressivamente sempre più brevi, impongono.
Come è vero che nel momento in cui scrivo il sole non tramonta mai, si arriva anche all’opposto, quando d’inverno il sole tramonta e per circa un mese rimane nascosto.
Sono trenta giorni di buio, con temperature che arrivano a toccare i -40°.
Siamo quindi sazi e ristorati, è mezzanotte passata e decidiamo di tornare indietro per una vera “notte” di sonno.
La tenda e i sacchi a pelo ci tengono caldi e riparati, ma fuori soffia un vento gelido che scuote il nostro rifugio fino alla mattina, ripulendo anche il cielo da una buona parte delle nuvole grigie.
Ci sveglia il richiamo, appena fuori dalla nostra tenda, di quella che apprendiamo essere una volpe artica, una specie che, al contrario di quello che si potrebbe pensare, abbonda sull’isola e non è affatto difficile da avvistare. A testimoniarlo è il tappeto di cacche che tappezzano tutto lo spiazzo del campeggio.
Volpi artiche. Leggiadri animali dall’intestino iperattivo.
Ci portiamo sbadigliando vistosamente nella sala comune, che doppia come sala da pranzo e cucina e consumiamo una frugale colazione: banane, caffè e pane nero con sopra un quintale di formaggio, salame e insalata russa.
Dobbiamo sbrigarci perché alle otto e trenta ci passeranno a prendere per portarci ancora più a nord, in un protettorato russo completamente fuori dal tempo, Pyramiden.
Il ragazzo che passa a prenderci con un van ha la faccia rotonda e simpatica, e una discreta stazza ad accompagnarla.
Ci carica insieme ad altri due ospiti del campeggio e mette in moto per andare a recuperare i restanti membri della nostra spedizione di giornata.
Il gruppo risulta essere piuttosto eterogeneo, oltre a noi una coppia svizzera, due ragazze norvegesi, un signore inglese e un tizio che priverà Nick della sua carica di tecno fotografo portando con sé un drone, lo stesso drone che Nick ha lasciato in tenda la mattina prima di partire.
Ci spiace Nick, better luck next time.
La destinazione è parecchio più a nord, circa cinquanta chilometri raggiungibili esclusivamente via acqua, nel nostro caso su di un motoscafo che sarà il protagonista dell’ultima parte di questo racconto.
Ci vengono forniti i vestiti adatti a un’escursione in barca con temperature artiche: una spessissima tuta impermeabile a un pezzo, stivali imbottiti, guanti pesanti, passamontagna e occhialoni da neve.
Una volta in moto è infatti fondamentale mantenersi coperti e asciutti per impedire che il vento attraversi i vestiti gelando il malcapitato fino alle chiappe (mi si perdoni il francesismo).
Bene, prendete questa cosa e mettetela da parte. Apprezzerete la sua ironia più avanti.
Il tragitto è onestamente spettacolare, i fiordi che attraversiamo ci offrono scorci delle basse montagne che ci circondano, spoglie di qualsiasi vegetazione ma venate di neve e ghiaccio.
E casa per alcune delle specie che abitano queste terre inospitali: piccoli gabbiani e pulcinelle di mare che ci accompagneranno fino alla meta.
No, non nessuno di loro si chiama Zuppiero.
Smettetela.
Arriviamo senza problemi, dopo circa due ore di onde basse e placide, e approdiamo di fronte a un ex stabilimento per la lavorazione del carbone la cui facciata recita in cirillico “Пирамида”, Pyramiden.
L’insenatura che ospita questa ex utopia sovietica vede da una parte la montagna che dà il nome all’insediamento, dall’altra uno dei molti fiumi di ghiaccio che dal complesso sistema di ghiacciai delle Svalbard si affaccia sul mare. È il ghiacciaio Nordenskjøldbree, il cui ghiaccio è quasi blu a causa della sua incredibile densità e purezza.
Questo trivia scientifico a caso è riciclato da un racconto di Sio, a cui ho risposto con superbia dimostrando di essere estremamente ferrato sull’argomento.
Povero stolto, non sa che ora posso spacciare la sua cultura aneddotica per mia.
Ad ogni modo la giornata trascorre così, tra una visita a una piazza da cui il busto di Lenin domina ancora, sorvegliando tutto con un cipiglio solenne, e aneddoti a caso sui ghiacciai (grazie Sio).
È tutto talmente bello che per pranzo ci viene anche offerto del cibo solubile, nelle varietà di: cous cous con verdure, chili con carne e Lapskaus (un piatto norvegese a base di patate e manzo stufato).
Patate e manzo. Solubili. What a time to be alive.
Siamo anche così furbi da bere dello sciroppo di frutti rossi, da diluire in acqua calda per ottenere una dolce bevanda riscaldante, puro. Rischiando così in due sorsi il coma glicemico.
La guida ce lo fa notare in maniera molto elegante, senza metterci alla berlina come meriteremmo.
Risaliamo sulla nostra imbarcazione e prendiamo la via del ritorno, anche se qualcosa sembra non essere come all’andata. Dalla bocca del fiordo si è alzato un vento piuttosto forte che solleva onde minacciose, il motoscafo su cui viaggiamo le attraversa sicuro, rovesciando ad ogni onda secchiate di acqua gelida contro di noi.
Ma nessuna paura, il nostro equipaggiamento ci tiene caldi e asciutti, è infatti impermeabile.
Pare tuttavia che impermeabile sia un termine dalle varie sfaccettature; quello che può essere impermeabile a un po’ di pioggia potrebbe non esserlo ad un nubifragio. “Qualche spruzzo d’acqua” potrebbe sortire risultati diversi rispetto a “moltissimi spruzzi d’acqua grossi”. Inizia inoltre a piovere.
Scopriamo così, con nostra somma delizia, che ad ancora un ora buona dall’arrivo, le nostre tute NON sono impermeabili all’ira che gli dei nordici stanno rovesciando su di noi.
Nick esordisce in maniera garbata con “MI STO GELANDO LE PALLE”, io non lo ascolto in quanto troppo concentrato sui rivoli gelidi che mi scendono dal petto fino alle ginocchia, Sio fischietta felice; a quanto pare il suo lato di motoscafo è più riparato.
Siamo comunque certi che il karma provvederà successivamente a punirlo a dovere.
Mi preoccupo per il telefono che nella mia tasca interna sta sguazzando in un dito di acqua salata, Nick invece ha uno zaino in cui sospetto abbia lanciato un paio di manciate di oggetti tecnologici costosi, solo per il gusto di metterli tragicamente a rischio.
Quando arriviamo siamo fradici ma felici.
Specialmente felici di essere arrivati.