Poco distante da Gerði abbiamo il nostro primo incontro con gli iceberg.
Già dal campeggio in cui ci fermiamo per la notte è possibile vedere le propaggini del Vatnajökull, il più grande ghiacciaio islandese, che si estendono fino alla costa. Proseguendo per pochi chilometri si arriva a una delle mete più turistiche di tutta l’isola, la piccola baia di origine glaciale di Jökulsárlón.
È proprio per evitare il grosso dei turisti che viene deciso che la mattina sarà bene mettersi in marcia il prima possibile. Nell’unica mattina in cui avevo espresso il desiderio di prendercela con più calma. Sarà l’unica volta durante tutto il viaggio in cui Sio e Nick decideranno di darsi una mossa appena svegli.
Al mio naso l’odore di complotto si fa sempre più intenso.
Non sono neanche le nove quando arriviamo in prossimità di Jökulsárlón, ce ne accorgiamo prima di essere in vista della baia per via della temperatura: l’aria mediamente tiepida per gli standard islandesi si fa di colpo pungente; le gocce di sudore si gelano sulla pelle e gli arbusti a lato della strada diventano bianchi scheletri privi di foglie.
O forse sto drammatizzando perché mi girano ancora le scatole per essermi dovuto svegliare presto.
Ad ogni modo il vento che ci soffia in faccia si fa più freddo e il motivo diventa evidente quando svoltiamo l’ultima curva prima della baia: la piccola insenatura è uno specchio d’acqua quasi immobile costellato da candidi iceberg venati di azzurro. Appena alle spalle della baia il Vatnajökull si tuffa in acqua lasciando davanti a sé enormi blocchi di ghiaccio dalle sfumature bluastre.
Rimaniamo incantati mentre pensiamo che abbiamo voglia di uova e pancetta.
Purtroppo il bar che fa anche da negozio di souvenir vende solo ciambelle e panini con il pollo.
Due stelline su Tripadvisor ed emoji triste.
Fortunatamente il nostro malcontento alimentare è subito mitigato dalla comparsa tra gli iceberg di qualche foca impegnata in ciò che alle foche riesce meglio: nuotare con aria placida e grassoccia per la delizia degli astanti. Il tempo di scattare qualche foto e girare un paio di fegatelli e decidiamo che possiamo rimetterci in marcia, risaliamo in sella salutando Aurelie che nel frattempo è arrivata con la solita espressione felice che la contraddistingue.
Da Jökulsárlón in poi le strade iniziano ad essere dritte e pianeggianti, lunghe strisce di asfalto rese interessanti solo dagli incredibili ghiacciai che fanno loro da sfondo. Ai lati della strada larghissime distese di terra spoglia macchiate da ciuffi di erba gialla, una steppa infinita e lievemente alienante che ci accompagna per un paio di giorni, facendoci attraversare le tappe intermedie di Skaftafell e Kirkjubæjarklaustur.
Nomi che certamente mi ricordavo senza dover fare copia/incolla da Google.
È solo a una trentina di chilometri dal nostro prossimo obiettivo che il paesaggio ricomincia a mutare. Il ghiacciaio è ormai alle nostre spalle, siamo al centro di una piana sabbiosa resa più gradevole solo dai cespugli più alti e verdeggianti e da qualche sottile corso d’acqua che si affretta verso il mare alla nostra sinistra. La strada disegna una sorta di U che dall’ultimo fiordo attraversato porta fino al seguente, accanto al quale sorge la cittadina di Vik.
Ci concediamo una veloce pausa in prossimità di due WC chimici per riflettere sui misteri della vita e dell’universo. Già che ci siamo lo facciamo seduti.
Quando ci rimettiamo in marcia notiamo dei mulinelli di sabbia, giusto un paio di chilometri più a nord rispetto a dove ci troviamo. Ci guardiamo sorpresi ma decidiamo che la cosa non ci riguarda, e ricominciamo a pedalare senza darci troppo peso.
Il sospetto che il vento possa stare diventando particolarmente violento ci viene qualche minuto più tardi, quando ci ritroviamo a pedalare contro un muro d’aria compatta che sembra volerci rispedire da dove siamo arrivati. Un occhiata al contachilometri e le nostre stime per il tempo rimanente passano da “un oretta e qualcosa” a “quattro ore, ti prego non di più”.
La strada restante sono parole di maleducazione verso l’Islanda recitate mentalmente come un mantra.
La sensazione, quando finalmente arriviamo a Vik in serata, è di arrivare nel cantiere di una cittadina che deve ancora esistere. Un cartello ci segnala che stiamo entrando nel centro ma tutto quello che possiamo vedere sono un enorme supermercato in costruzione alla nostra sinistra e le fondamenta di qualcosa alla nostra destra. Soltanto più avanti lungo la strada si intravede il tetto di qualche casa e, speriamo, di un qualche negozio di alimentari.
Troviamo subito il campeggio, un edificio basso e largo a pianta ottagonale diviso a spicchi per ospitare i bagni, la reception, una piccola lavanderia e la sala comune.
Tutto intorno un cospicuo numero di tende e qualche sparuto camper.
Piantiamo la tenda e andiamo a fare provviste. Il piano è di fermarsi un intero giorno per ricaricarsi e poter lavorare a blog, vlog, video, fiori, cose, città.
Facciamo la spesa e ci concediamo un boccone in quello che pare essere l’unico ristorante del posto. Hamburger e birre costosissime per tutti tranne per me, che decido di rischiare ordinando il tradizionale piatto islandese: pizza con jalapeño e salame piccante.
Quando finiamo di mangiare siamo completamente arrostiti dal cibo e dalla giornata e andiamo subito a coricarci come dei bravi ciclisti responsabili (anziani).
La mattina ci piazziamo in sala comune appena fatta colazione, per conquistare una presa della corrente a cui attaccare una ciabatta e conseguentemente qualsiasi dispositivo in nostro possesso. Il risultato di solito è un accrocchio di cavi e batterie delle dimensioni di un cane di piccola taglia, che rende felice chiunque abbia la fortuna di doversi sedere accanto a noi.
Questa volta tocca a me andare a cercare posti e presa, li trovo subito dividendo il tavolo con un ragazzo dall’aria simpatica con cui inizio a chiacchierare in inglese.
Dopo qualche minuto entra anche Nick, scambiamo qualche parola in italiano (o qualsiasi sia la lingua che parla Nick) e il ragazzo di fronte a noi, sentendoci, si rivela per quello che è: un connazionale in giro per l’Islanda in autostop.
Visto che non siamo i classici turisti italiani che appena escono dai confini nazionali non fanno altro che pensare a casa propria, dopo circa tre minuti di conversazione stiamo sbraitando e gesticolando raccontandoci a vicenda dove sono i nostri posti preferiti per mangiare il lampredotto (il ragazzo, Matteo, è fiorentino).
La nostra giornata passa tranquilla tra duecento caffè e le occhiate di disapprovazione di chi cercherebbe un tavolo per potersi sedere a mangiare. Siamo onesti: siamo in giro in bici, il tavolo e l’elettricità servono più a noi che ai polacchi appena scesi dal loro bus-extra-confort-visita-l’Islanda-in-tre-giorni.
La sera ci ritiriamo in tenda sotto un cielo di un inquietante color piombo, non sapendo ancora che dalla mattina seguente le cose inizieranno ad essere meno piacevoli e decisamente più bagnate.
Il mio momento di rottura con l’Islanda si sta avvicinando.