Il nostro arrivo a Egilsstaðir è trionfale.
Arriviamo sicuri e boriosi, convinti che il peggio sia ormai alle nostre spalle. Ci riposiamo un giorno intero mentre sistemiamo il lavoro arretrato e ci occupiamo di fare provviste. Quando arriva il momento di ripartire siamo rilassati e certi che nulla ormai possa scalfirci.
Davanti a noi, la strada che dobbiamo percorrere, se la ride dall’alto dei suoi due picchi di sterrato, entrambi intorno ai cinquecento metri.
Noi ridiamo a nostra volta di ciò che ci aspetta, come dei perfetti idioti.
Raggiungiamo il punto dove la strada inizia ad inerpicarsi lungo la montagna dopo pochi chilometri di pedalata, vista dal basso la salita sembra morbida e graduale, nulla di cui preoccuparsi. Ci battiamo a vicenda vigorose pacche sulle spalle.
Quando arriviamo alla cima, circa due ore più tardi, non ridiamo più.
La strada inizia la sua arrampicata in maniera graduale, ma bastano poche centinaia di metri perché il fondo passi da “piacevole sterrato ben battuto” a “sagra di buche e ghiaia” a “dichiarazione di intenti contro i ciclisti”. La pendenza in costante aumento non aiuta.
La concentrazione che dedichiamo alla salita ci prende così tanto che non ci fermiamo a pensare a cosa ci possa aspettare una volta sulla vetta.
La vista che si apre davanti a noi è quanto di più assurdo visto fino a quel momento: sembra che il panorama sia stato composto mettendo insieme tutto quello che nelle nostre teste grida Islanda.
Alla nostra sinistra la montagna, con la cima imbiancata da ghiacci perenni, digrada in sfumature di verde verso il fiordo che spacca a metà il paesaggio. Le nuvole sono così basse e compatte che a tratti sembrano toccare il terreno, le ombre che proiettano sono nette e precise. A destra l’altro fiancale cola creando terrazze naturali di glassa vulcanica.
Sono così poetico nel descrivere il paesaggio che mi auto consegno il premio Strega.
Dopo una veloce sosta durante cui consumiamo ventisette barrette energetiche abbassiamo lo sguardo verso la discesa che ci aspetta.
Appena oltre la seconda curva, giusto fuori strada, giace un’auto rovesciata. Ci appuntiamo mentalmente di cambiare le pastiglie dei freni nel caso in cui riuscissimo ad arrivare vivi a valle.
Spoiler: ce la facciamo, nonostante io continui a trovare ironico il voler chiamare “discese” dei muri con il diciassette percento di pendenza.
Da lì rimangono pochi chilometri fino al prossimo campeggio, che percorriamo sotto un sole piacevole mentre il solito vento ci soffia in faccia con la forza dell’Odio e del Disprezzo.
Cara vecchia Islanda.
Quando arriviamo a Djúpivogur c’è ancora una splendida luce, il tempo di fotografare il versante opposto del fiordo e cala una nebbia densa e gelida. Decidiamo che il momento è propizio per ritirarci nel nostro rifugio. Condividere gli spazi ristretti di una tenda è ancora più magico e divertente quando gli occupanti sono affiatati come lo siamo noi, ognuno con le sue piccole abitudini da poter condividere con gli altri.
Ogni notte, per esempio, posso contemplare i misteri della Vita mentre i grugniti gutturali di Nick mi tengono sveglio e Sio mi dorme sopra grazie alla sua abilità di distendersi perfettamente obliquo nel poco spazio disponibile.
Mentre ascolto sereno i rumori della notte spesso mi chiedo quanta fatica comporterebbe occultare i cadaveri di due uomini adulti.
Forse come ricompensa per non aver concretizzato i miei impulsi omicidi il giorno successivo veniamo premiati dalla quasi totale assenza di vento, nonostante il tragitto da seguire passi per una zona segnalata come potenzialmente pericolosa per le raffiche improvvise.
Arriviamo ad un piccolo campeggio costruito sul set di un musical anni ’50.
Il fondale chiaramente dipinto lo testimonia: le montagne sono così perfettamente a forma di montagna che sembrano disegnate da un bambino o da Sio.
Il campeggio offre tra le altre cose un piccolo capanno sistemato a cucina in cui possiamo consumare la nostra cena nutrizionalmente bilanciata che non è sicuramente composta da carbonara-istantanea-nel-bicchiere e da Oreo.
La sera stessa facciamo anche la conoscenza di quella che ad oggi, mentre scrivo questo post, è diventata una presenza fissa del nostro pellegrinare: sto parlando di Aurelie, una giovane ciclista francese che come noi quel giorno sosta sul set di “Sette spose per sette fratelli”.
La nostra collega arriva al campeggio con una buona parte dei suoi possedimenti stesi sopra le borse da bici. Vedendo la nostra curiosità ci spiega che l’asciugatrice nel campeggio precedente era fuori servizio, scoperta avvenuta solo una volta che la lavatrice che conteneva vestiti e sacco a pelo aveva finito il lavaggio. Per aiutarla a non morire assiderata durante la notte il buon Nick le presta un pesante maglione.
Andiamo a dormire augurandole mentalmente di avere una buona resistenza al freddo.
Le temperature rigide della notte non sembrano però scalfire Aurelie, che alla mattina è di buon umore esattamente come l’avevamo lasciata. Oltre, ovviamente, ad essere ancora viva.
Da lì in avanti cominciamo a rincontrarci ogni sera, cosa resa facile dall’esiguo numero di campeggi lungo la strada, che costringono a pianificare la giornata in funzione della sosta successiva. Aurelie dimostra sempre un entusiasmo e una serenità invidiabili: o almeno questo è quello che sembra, un segno di squilibrio mentale potrebbe essere il fatto che sembra trovare piacevole la nostra compagnia.
La sua positività mi contagia a tal punto che inizio anche io ad apprezzare il panorama e tutto quello che l’Islanda ha da offrirmi anche nei momenti di maltempo o nei tratti più ardui*.
Dal piccolo campeggio nell’Oregon abbiamo ormai Höfn a portata di mano, iniziamo renderci conto che la distanza che ci separa da Reykjavik si fa sempre minore e la strada percorsa, vista sulla cartina, inizia ad assomigliare ad un semicerchio.
*Ovviamente scherzo, l’odio che riservo al vento e alle strade verticali è lo stesso che riservo alla positività stessa.