#03 : di Volatili e Bagni Ghiacciati

Sto scrivendo dall’aeroporto di Oslo. Sono le 18.00.
Il nostro volo delle 16.20 è slittato fino ad ora e stiamo ancora aspettando di sapere quando potremo partire alla volta di Reykjavik.
Nell’attesa ringraziamo i bibitoni di Starbucks, le sue comode poltroncine e le sue prese elettriche.
Visto che l’orario di partenza è incerto ne approfitto per accendere il computer e buttare giù qualche battuta per fare il punto degli ultimi giorni: abbiamo fatto e visto un sacco, abbiamo esplorato e lavorato ai contenuti che metteremo online nelle prossime settimane.
Tuttavia si sa, mangiare un panino con il tonno è una cosa, raccontarlo un altra; gli ultimi giorni sono stati fitti di quel tipo di eventi che una volta raccontati risultano noiosi e privi di interesse per il lettore.
Vi lascio con qualche aneddoto e considerazione a caso su di un viaggio che sta ancora prendendo forma.

1. Le Isole Svalbard e i Suoi Abitanti

La prima cosa a stupirmi è stato quanto sia facile abituarsi al sole di mezzanotte.
La stanchezza accumulata durante la giornata e il caldo riparo della tenda sono ottimi carburanti per il sonno; inoltre dormendo si ha il grosso vantaggio di non dover ascoltare Sio.
Di contro bisogna ascoltare il russare incessante di Nick, a cui ho infilato della paglia in bocca nella vana speranza che si soffocasse nel sonno.
Nel momento in cui scrivo è ancora vivo.
Temo che il mio piano sia fallito.

La prima cosa che si vede al mattino aprendo la tenda è una distesa di terra e muschio.
Se si prosegue per una cinquantina di metri davanti a sé si arriva all’acqua; è l’Isfjorden, un braccio di acqua salata che dal Mar di Groenlandia si protende verso l’interno di Spitsbergen, spaccandola a metà.
Sul versante sud ci siamo noi, ancora straniati dagli spettacoli che la natura ci può offrire.
Come gli immacolati ghiacciai che si stendono davanti ai nostri occhi, appena al di là dell’acqua, o come i nostri meravigliosi vicini di casa: gli uccelli più iperattivi, incazzati e geneticamente idioti che abbia mai avuto il piacere di ammirare.

Sto parlando della sterna artica (o sterna paradisea), un piccolo uccello longevo dalla testa nera e dal becco rosso, con piccole zampe palmate e un atteggiamento di rabbia coatta che lo accompagna in ogni momento della sua vita.
Un uccello che si stima possa percorrere, nell’arco della sua vita, la distanza che separa la terra dalla luna, tre volte.
Tre. Volte.
Tutto questo per poter arrivare ai luoghi di nidificazione, di cui il campeggio di Longyearbyen è un esempio, e deporre da una a tre uova, più spesso due.
Due.
La sua piccola taglia non gli permette di essere una vera minaccia per animali della stazza dell’uomo, men che meno per predatori più grossi, ciononostante la tensione accumulata lo spinge a piombare sulla testa di qualsiasi cosa si avvicini anche solo lontanamente alla posizione del nido, cercando di beccargli la testa, strillando e spruzzando generosi getti di guano.

Questo ovviamente non basterebbe a scoraggiare un orso che decidesse di cibarsi delle loro uova, ma la sterna, dopo avere percorso millemila milioni di chilometri si sente lievemente irascibile visto la precarietà del risultato raggiunto.
Fa piacere constatare che anche Madre Natura, nella Sua infinita saggezza, possa cappellare alla grande.

Longyearbyen_Selection3_-1.jpg

2. Pagaiare Tantissimo

Poche cose ci interessano più degli uccelli stupidi, e fare attività fisica è una di queste.
Ci piace così tanto sudare forte sotto uno strato di neoprene non traspirante che una bella sera abbiamo deciso di andare a fare un giro in kayak fino alla sponda opposta del fiordo, scevri di qualsiasi precedente esperienza di kayak.

Siamo davanti al campeggio quando due simpatiche ragazze passano a raccoglierci per portarci al molo da cui partiremo, dove aspetta già un nutrito gruppo di aspiranti kayakisti.
Oltre a noi: una famiglia italiana, una ragazza norvegese e cinque simpatici ragazzi indiani.
Uno dei cinque, nello specifico, sembra essere il trentenne più debole e malnutrito che abbia visto da un bel po’ di tempo. Sapete già dove stiamo andando a parare…
Ci vengono spiegate le norme di comportamento da tenere in kayak e ci viene mostrata la nostra destinazione su di una cartina militare: arriveremo a un piccolo gruppetto di case di legno, casette che un tempo costituivano l’unico riparo per i minatori che su quella sponda estraevano carbone, e il cui nome onestamente non ricordo (d’ora in avanti per comodità verrà chiamato Brescia).

Sono circa tre chilometri di fiordo ondoso all’andata e altrettanti al ritorno, inframezzati da una breve pausa a Brescia per riscaldarsi con del caffè e visitare le costruzioni in legno.
Saliamo impavidi a coppie di due sulle nostre imbarcazioni, e dopo essere stati bardati di tutto punto veniamo gentilmente spinti in acqua da Hannah e Rebecca, le due capogruppo di cui si è detto prima; la prima cosa che si nota è che pagaiare è molto meno faticoso di quello che si potrebbe immaginare, se i due membri dell’equipaggio vanno in sincrono, lo è estremamente di più se i due non lo fanno o se uno dei due ha la forza di mia nonna (splendida signora nel fiore dei suoi novant’anni).
Io mi trovo a essere il fiero timoniere del kayak più debole che si sia mai visto. Il team ovviamente è costituito da Lorro il Muschio e Raj l’Anziano. La traversata alterna momenti in cui remiamo entrambi ma dove curiosamente i remi del mio compagno sfiorano appena il pelo dell’acqua, a momenti in cui, bisognoso di riposo, semplicemente smette di remare.

Arriviamo comunque a destinazione e ci sediamo tutti insieme sulla riva per goderci il momento di ristoro, al riparo da una grossa costruzione in legno da cui partivano i carrelli che salivano fino alla miniera. Ci dicono che è possibile salire sino al primo piano per visitarne l’interno, arrampicandosi per una ripida e precaria scaletta di legno. Io e Sio ci fiondiamo presi dall’entusiasmo, ricordandoci soltanto a metà scala che soffriamo di vertigini. Arrivare in cima è terrificante, la discesa è traumatica.

Il ritorno è fortunatamente più facile, il vento soffia meno e le coppie sono più coordinate; io e Raj ci riposiamo perfettamente a tempo.

3. Fare il Bagno nel Freddo

Internet è uno strumento magnifico, permette di avere a portata di mano tutto lo scibile umano e ottenere qualsiasi informazione praticamente all’istante.
Capita però che le informazioni sbagliate arrivino nelle mani delle persone sbagliate: siamo ancora in Italia quando Nick scopre che presso il campeggio di Longyearbyen si può diventare membri del Naked Arctic Bathing Club, una modesta hall of fame (comodamente consultabile online) che raccoglie i nomi di tutte le persone che si sono immerse, completamente nude, nell’Isfjord.
Inutile dire che Nick vada a nozze con idee malsane come questa, io dal canto mio amo molto non morire congelato.
Anche un gruppo idiota come il nostro comunque vive di democrazia, ed è stato quindi deciso che una volta arrivati nelle Svalbard saremmo andati a gelarci le chiappe tenendoci per mano.

Una cosa fortunatamente mi distingue da Sio e Nick: non sono narcolettico.
Nonostante nelle Svalbard il tempo possa essere piovoso e il vento gelido, capita spesso la mattina che il vento si plachi e qualche timido raggio di sole arrivi a scaldare il mondo.
È quindi capitato che una mattina, aprendo la tenda, trovassi l’esterno piacevolmente mite e soleggiato; condizione estremamente fuggevole e quindi da cogliere con prontezza.
Approfittando della momentanea primavera ho vestito i miei panni da Vile Traditore, radunato quel pochissimo di voglia che avevo, e mi sono diretto alla volta della spiaggia di sassi accompagnato dall’unico membro dello staff del campeggio, incaricato del compito di misurare la temperatura dell’acqua e fare da testimone all’impresa.

Potrei dirvi che fare il bagno nelle acque di Spitsbergen non è così traumatico come lo si immagina, ma mentirei grandemente.
La cosa positiva è che il freddo intenso spinge il corpo umano ad aumentare incredibilmente la circolazione appena usciti dall’acqua, dando la sensazione di quasi-caldo, ma immergersi è il proverbiale schiaffo in faccia.
Restare immersi per più di qualche secondo, per una persona non allenata, è praticamente impossibile, e basta pochissimo per iniziare a perdere sensibilità alle estremità.
A impresa conclusa, comunque, il campeggio di Longyearbyen regala ai valorosi (idioti) una doccia calda gratis e ovviamente l’attestato (di essere idioti) e la gloria imperitura.

In tutto questo devo riconoscere che le isole Svalbard mi hanno dato veramente molto, e quindi anche io, nel mio piccolo, ho deciso di lasciare qualcosa in cambio.
Mentre mi preparavo per il bagno nel fiordo mi sono dimenticato di indossare ancora gli occhiali, e una volta resomene conto era ormai troppo tardi: i miei fondi di bottiglia giacciono per sempre sul fondo dell’Isfjorden.
Nick sostiene che questa sia la punizione per non averli svegliati.

(Tranquilli, appena arrivati a Reykjavik ho cercato un ottico che mi salvasse dalla miopia e ne ho trovato uno simpaticissimo, oltre che gran tifoso del Parma, che mi ha ridonato la vista nel giro di pochi minuti, tagliando le lenti e montandomele al momento. Egli vivrà per sempre nel mio cuore, grazie.)